“Pregare . Per af-fidarsi”: il Messaggio del Vescovo per la Quaresima e la Pasqua

Pregare. Per af-fidarsi

“Pregare sempre, senza stancarsi” (Lc 18,1)

In quest’anno di grazia 2024, ancora nel Sinodo e ormai decisamente prossimi al Giubileo, che si aprirà il 24 Dicembre, il tema della riflessione quaresimale dell’anno trascorso, Sanati dalla Quaresima. Salvati dalla Pasqua, è, in parte, riproposto e sollecitato da papa Francesco per l’intera Chiesa cattolica: la preghiera. Era il 22 febbraio del 2022 quando Francesco indicò questo 2024 come il tempo di “una grande sinfonia [per] recuperare il desiderio di stare alla presenza del Signore, ascoltarlo e adorarlo”, mentre nella prefazione a un volume del Cardinal Comastri, Pregare oggi. Una sfida da vincere, sussidio scritto proprio in aiuto per intraprendere questo intensificato itinerario orante, papa Francesco scrive: “Il Giubileo ordinario del 2025 è ormai alle porte. Come prepararsi a questo evento così importante per la vita della Chiesa se non attraverso la preghiera? Ora è il momento di preparare l’anno 2024, che sarà dedicato interamente alla preghiera. In effetti, nel nostro tempo si fa sentire sempre più forte il bisogno di una vera spiritualità, capace di rispondere ai grandi interrogativi che ogni giorno si affacciano nella nostra vita, provocati anche da uno scenario mondiale non certo sereno. […] Abbiamo bisogno, pertanto, che la nostra preghiera salga con maggior insistenza verso il Padre, perché ascolti la voce di quanti si rivolgono a Lui nella fiducia di essere esauditi. […] È un tempo nel quale, sia personalmente sia in forma comunitaria, poter ritrovare la gioia di pregare nella varietà delle forme e delle espressioni. Un tempo significativo per incrementare la certezza della nostra fede e la fiducia nell’intercessione della Vergine Maria e dei santi. Insomma, un anno in cui fare esperienza quasi di una ‘scuola della preghiera’, senza dare nulla per ovvio o per scontato, soprattutto per quanto riguarda il nostro modo di pregare, ma facendo nostre ogni giorno le parole dei discepoli quando chiesero a Gesù: ‘Signore, insegnaci a pregare’ (Lc 11,1).

In questo anno siamo invitati a diventare più umili e a lasciare spazio alla preghiera che sgorga dallo Spirito Santo. È Lui che sa mettere nei nostri cuori e sulle nostre labbra le parole giuste per essere ascoltati dal Padre. La preghiera nello Spirito Santo è quella che ci unisce a Gesù e ci consente di aderire alla volontà del Padre. Lo Spirito è il Maestro interiore che indica la strada da percorrere; grazie a Lui la preghiera anche di uno solo può diventare preghiera della Chiesa intera, e viceversa. Niente come la preghiera secondo lo Spirito Santo fa sì che i cristiani si sentano uniti come famiglia di Dio, il quale sa riconoscere le esigenze di ognuno per farle diventare invocazione e intercessione di tutti. […] Possa la preghiera personale e comunitaria diventare incessante, senza interruzione, secondo la volontà del Signore Gesù (cfr. Lc 18,1), perché il Regno di Dio si estenda e il Vangelo raggiunga ogni persona che chiede amore e perdono”.

Il Papa vi ritorna ancora, con insistenza, nel suo Messaggio per la Quaresima di quest’anno, Attraverso il deserto Dio ci guida alla libertà: “È tempo di agire, e in Quaresima agire è anche fermarsi. Fermarsi in preghiera, per accogliere la Parola di Dio, e fermarsi come il Samaritano, in presenza del fratello ferito. L’amore di Dio e del prossimo è un unico amore. Non avere altri dèi è fermarsi alla presenza di Dio, presso la carne del prossimo. Per questo preghiera, elemosina e digiuno non sono tre esercizi indipendenti, ma un unico movimento di apertura, di svuotamento: fuori gli idoli che ci appesantiscono, via gli attaccamenti che ci imprigionano. Allora il cuore atrofizzato e isolato si risveglierà. Rallentare e sostare, dunque. La dimensione contemplativa della vita, che la Quaresima ci farà così ritrovare, mobiliterà nuove energie. Alla presenza di Dio diventiamo sorelle e fratelli, sentiamo gli altri con intensità nuova: invece di minacce e di nemici troviamo compagne e compagni di viaggio. È questo il sogno di Dio, la terra promessa verso cui tendiamo, quando usciamo dalla schiavitù”.

Accogliamo di tutto cuore l’invito di papa Francesco a intraprendere – per noi a continuare, approfondire e rimotivare – il cammino di riflessione che già ho proposto nella Quaresima del 2023, dilatando gli spazi, i tempi, l’intensità della preghiera. Quel coram Deo, davanti a Dio e non al proprio Io. Ricordavo lo scorso anno: “Paradossalmente, anche la preghiera, può essere usata come mezzo di affermazione di sé. Preghiera che, invece, è il luogo privilegiato per imparare a vivere nella relazione con il Padre. Spazio privilegiato per imparare il Padre. Pregare è fare spazio al Padre, senza usurparglielo. […] La moltiplicazione delle parole di cui parla Gesù in Mt 6,7 è segno di un rapporto insano con Dio, del quale il Figlio dice che ‘sa di quali cose avete bisogno prima ancora che gliele chiediate’. Dimenticando ciò, l’orante tenta di catturare l’attenzione di Dio, di “addomesticarlo” (caso mai insegnandogli anche come essere e fare Dio…), blaterando e catapultando verso di lui caterve di parole. Troppe e inutili, dice Gesù”.

Ciò conduce a diventare consapevoli che il tempo di preghiera non è un tempo accanto ad altri tempi, ma un sempre (cf. Lc 18,1; Rm 1,10; 12,12; Ef 6,18; Col 1,3; 1Ts 5,17), “senza stancarsi mai” (Lc 18,1; 2Cor 4,1.16; Gal 6,9; Ef 3,13; 2Ts 3,13), “in ogni momento” (Lc 21,36). Solo così si “impara il Padre”, perché il primato di Dio possa permanere come criterio di ogni scelta, diventando stile abituale nelle relazioni, nelle scelte di vita, e si possano abitare la storia e le storie, rimanendo vigili e responsabili, capaci, cioè, di risposte autentiche.

È Gesù stesso che spiega il senso pregnante dell’avverbio sempre, come anche dell’espressione non stancarsi mai, raccontando la parabola del giudice che si fa insistentemente pregare (Lc 18,1-8). La vedova – categoria senza alcuna copertura sociale, perciò indifesa e conseguentemente maltrattata – alza il grido accorato e caparbiamente fiducioso verso il giudice che appare sordo, distratto e privo di interesse verso di lei, la quale, tuttavia, non smette di rivolgere la sua petizione: “Fammi giustizia contro il mio avversario!” (Lc 18,3).

Ma è soprattutto il contesto entro cui è incorniciata la parabola a diventare un potente indicatore di senso: nei capitoli 17 e 21, l’evangelista indica la preghiera come l’esperienza-cardine del discepolo, chiamato a vivere tra il qui ed ora, il presente e l’éschaton, le realtà ultime, ciò che deve av-venire. Gesù mette in allerta i discepoli, perché non corrano il pericolo di trovarsi impreparati quando “il giorno del giudizio” farà irruzione: “Verrà un tempo…” (17,22). L’incontro con il Signore che tornerà nei giorni ultimi, necessita di una genuina limpidezza interiore e una vigilante coscienza di fronte alle incongruenze, alle apparenze e ai mali presenti. È proprio la preghiera l’anima dell’attesa, la forza spirituale del discepolo che lo rende capace di assumere, per intero, la memoria del passato, per preparare e accogliere il futuro di Dio. E il giudice, che parlando tra sé e sé, dice: “anche se non temo Dio e non ho rispetto di nessuno” (Lc 18,4), decide, riguardo alla vedova, “le farò giustizia” (v. 5). Il “fare giustizia” è il ritornello che regge la trama dell’intera parabola (vv. 3.5.7.8), chiarificando così il rapporto inscindibile che corre tra preghiera ed éschaton, tra preghiera e cose ultime, come tempo della giustizia che si compie, del giudizio ultimo sulla storia come storia salvata. La tenacia adamantina della vedova è tutta esplicitata nella conclusione interrogativa di Gesù: “E Dio non farà giustizia ai suoi eletti che gridano notte e giorno verso di lui? Li farà a lungo aspettare? Vi dico che farà loro giustizia prontamente!” (vv. 6-8). “La risposta di Dio è dunque la salvezza, la giustizia che redime. […] Ma il rapporto preghiera-tempi ultimi del giudizio di Dio-tempo presente, come momento di lotta, viene reso ancora più evidente dall’esortazione esplicita di Gesù alla vigilanza. Il pericolo non è tanto la stanchezza nel pregare, quanto il facile compromesso con le preoccupazioni sollecitanti della condizione presente. L’etica dell’immediato ha la forza di ottundere la coscienza, di svigorire ogni attesa. Gesù mette in guardia e invita a pregare: ‘State bene attenti che i vostri cuori non si appesantiscano in dissipazioni, ubriachezze e affanni della vita’ (Lc 21,34). ‘Vegliate e pregate in ogni momento, perché abbiate forza di sfuggire a tutto ciò che deve accadere e di comparire davanti al Figlio dell’uomo’ (Lc 21,36). La vigilanza deve essere un atteggiamento costante del discepolo. In lui c’è infatti la ricorrente tentazione di cedere al contrappeso accattivante delle cose materiali, c’è il rischio dell’indifferenza di fronte ai valori dello spirito. Il messaggio profondo di ciò che accade e il destino ultimo, stanno oltre il facile incanto delle realtà visibili del presente. La preghiera è la voce di un cuore desto e vigile al mistero che sta oltre. È una sapienza che sa discernere l’essenziale e l’eterno al di là delle fragili immagini che vengono trasmesse ogni giorno sull’onda dei fatti” (E. Masseroni).

Nella Quaresima dello scorso anno ci siamo soffermati su quel “tripode santo” che innerva le cinque settimane che preparano il credente a celebrare la Pasqua di risurrezione del Signore Gesù: elemosina, digiuno, preghiera. Lo stesso titolo scelto allora per la riflessione, concentrandosi su quel trinomio, evocava una sanazione, un beneficio profondo, un tocco di risanamento (Sanati dalla Quaresima. Salvati dalla Pasqua). Vivere in verità la Quaresima in questa triplice direttrice che, come ricordato, anche Papa Francesco sottolinea nel suo Messaggio quaresimale di quest’anno, offre un’esperienza di illuminazione interiore e di conversione che segna profondamente e in-forma – cioè dà forma – il cammino spirituale.

Nella Quaresima, praticare una giustizia superiore a quella degli scribi e dei farisei, dismettere ogni forma di ipocrisia, di doppio gioco, di mascheramento, attiva il tempo propizio per rendere gloria a Dio, smettendo di rendere gloria a se stessi e alla “platea”, più o meno larga, che è sempre lì a scrutare, a investigare, a commentare, ad applaudire o a denigrare, tutta intenta in un’affannosa caccia al tesoro di immagine, di soddisfacimento, di compiacimento.

A stili di vita tutti imperniati sui “diversivi” – costino quello che costino, in tutti i sensi –, sul culto di sé, sull’impazzimento e, in definitiva, sul denaro, la Quaresima offre la preghiera, la carità e il digiuno come disintossicante, come possibilità concreta di tornare a Dio, di dargli gloria riconoscendo di essere figli attesi, amati, salvati. Af-fidati a lui. Questo è il tempo favorevole per dismettere la (triste) condizione di atei praticanti e assumere quella (gioiosa) di figli viventi.

Altra Quaresima. Quaresima altra

Il ritmo annuale della liturgia ci riconsegna, dunque, un’altra Quaresima. Il cuore del credente percepisce di dover vivere, oggi e sempre, una Quaresima altra.

Sì, la prima conversione da fare riguarda proprio il senso della Quaresima.

Se nelle nostre comunità cristiane si facesse una veloce indagine per tastare il grado di consapevolezza con cui si intende la Quaresima, le risposte potrebbero essere, grosso modo, le seguenti: “si fa la via crucis”, “non si mangia carne il venerdì”, “si fuma meno, si rinuncia a qualche dolcetto”, “si tenta di vedere meno TV e di stare meno sui social”… Forse, Dio, tra il filetto di salmone o la scatoletta di sardine che sostituisce la bistecca o la deprivazione di cinque sigarette su venti o la sospensione del vino fino al giorno di Pasqua… non c’entra poi tanto.

Sì, la prima conversione da fare riguarda proprio il senso della Quaresima.

Convertire è, innanzitutto, cambiare mentalità su questo tempo santo che annualmente ci viene donato dalla pedagogia della Madre Chiesa: più che il tempo della rinuncia è, per eccellenza, un kairós, un tempo propizio, un’occasione imperdibile, un frangente benedetto in cui Dio rimette le cose a posto, fa giustizia, salva. Ma “se lui si impegna in questa impresa, anche tu, creatura, rimetti a posto le cose della vita! Il che vuol dire: ritorna a Dio, ossia ritorna a considerare Dio come Dio, a pensare a Dio come Dio, a parlare a Dio come Dio, ad agire con Dio come Dio fa con te, ritorna a fargli spazio vitale. La Quaresima non è il tempo per sostituire esercizi ginnici con esercizi ascetici (con i primi ne gioverebbe la linea o il tasso di colesterolo), è il tempo in cui Dio ritorna ad essere Signore – cosa che dovrebbe accadere sempre, ma accade assai poco – e se Dio torna ad essere Signore della vita, cambiano molte cose: la prima comunicazione, il primo dialogo, non è quello del TG del mattino, ma lui; la prima attenzione non è per le cose o le strutture, ma per le persone; il trascurare cose per lui esige il profumo, non la mestizia” (S. Riva).

Sì, la prima conversione da fare riguarda proprio il senso della Quaresima.

Convertire è ri-orientare i desideri e il desiderare – riflessione che ci ha accompagnato, attraverso il Messaggio della Quaresima-Pasqua del 2015, Al pozzo oltre il pozzo. Scavando i desideri –, deponendo i desideri vecchi, attorcigliati più sull’Io che su Dio, avvizziti e, per ciò stesso, impossibilitati a dare vita. La conversione sta proprio nel desiderare i desideri di Dio, tutti detti e dati, tutti resi trasparenti ed eloquenti nella vita del Figlio Gesù, come il Vangelo ce li consegna. È proprio la Buona notizia che è Gesù, vissuto come l’imperdibile tesoro della propria vita, che indica ciò che conta, che segnala ciò per cui vale vivere, che fa palpitare il cuore per ciò che merita di essere promosso motivo di vita.

Sì, la prima conversione da fare riguarda proprio il senso della Quaresima.

Convertire non può essere un maquillage epidermico, periferico, di facciata, qualcosa che semplicemente sfiora senza toccare, vernicia senza consolidare, cambia senza cambiare. I tanti disastri esistenziali, di cui ognuno di noi ha conoscenza diretta, vengono sanati solo quando la conversione agli stili di vita di Gesù, tocca il cuore e lo riplasma. Le parole che accompagnano l’imposizione delle ceneri nel primo giorno di Quaresima, tracciano significativamente il cammino quaresimale ma, anche, dell’intera vita cristiana: “Convertitevi e credete al Vangelo”. La mutazione del cuore è resa possibile solo dal fatto di dare credito al Vangelo, dare credito alla parola e alla persona del Signore Gesù. Convertirsi senza credere nella Buona notizia che è Gesù, è proprio chimerico.

Sì, la prima conversione da fare riguarda proprio il senso della Quaresima.

Convertire è accorgersi che, amandoci, Dio non guadagna nulla ed il suo amore ha il gusto buono, inconfondibile, della gratuità, della eccedenza, della sproporzionatezza. Sarà solo lo Spirito di Dio a spalancarci il cuore, rendendolo capace di gioire del rinnovato scandalo del perdono immeritato. Stupiti, per sua grazia, potremo diventarne stabili residenti. In un tempo e in un clima dove, senza salvacondotti, si è irregolari, senza credenziali, si è impresentabili e senza carte di credito, si è trasparenti, la sorprendente Buona notizia dell’immeritato perdono, spalanca il cuore alla speranza e ci consegna ad una vera Pasqua di risurrezione. La gratuità dell’amore del Padre, che in Gesù si fa perdono, accoglienza e restituzione di vita, rialza e fortifica, sana e rilancia, sulle vie tortuose e mai abbastanza illuminate della vita, in compagnia di uomini e donne che, con noi e come noi, tentano di dare volto alla sorprendente novità del Vangelo di Gesù. Come scrivevo anni fa, se durante questa Quaresima non inciamperemo nello scandalo del perdono immeritato, dal cuore riarso non potrà uscire neppure una nota intonata dell’Exultet pasquale.

Sì, la prima conversione da fare riguarda proprio il senso della Quaresima.

Convertire è stupirsi che Gesù si fa prossimo ai peccatori senza esigere da loro, previamente, pentimento e non aspetta che il peccatore faccia il primo passo, cambi vita e produca opere buone, quasi che la salvezza sia la ricompensa dovuta, da Dio, ai propri sforzi. È stupirsi che il perdono immeritato che Gesù offre a chi è ingabbiato nel peccato, è donato senza sottomissione ad un qualche rito penitenziale, come facevano tutti gli inviati di Dio, Giovanni Battista compreso. Questi ne resta tramortito: “Giovanni […] mandò a dirgli per mezzo dei suoi discepoli: Sei tu colui che deve venire o dobbiamo attenderne un altro?” (Mt 11, 3). Il Battezzatore si aspettava – come tanti, come tutti – un Messia castigamatti che, finalmente, punisse i cattivi e premiasse i buoni. Resta stordito e perplesso nel vedere che Gesù usa misericordia con tutti. No, non c’è da aspettare un Messia diverso da Gesù. È la nostra attesa a dover diventare diversa: “Gesù rispose loro: “Andate e riferite a Giovanni ciò che udite e vedete: i ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono purificati, i sordi odono, i morti risuscitano, ai poveri è annunciato il Vangelo. E beato è colui che non trova in me motivo di scandalo!” (Mt 11,4). Gesù che guarisce e riconsegna alla vita, scandalizza, stupisce e innamora, sovvertendo schemi intangibili di giustizia retributiva e distributiva: non definisce la trasgressione, non aspetta cenni di rinsavimento, non condiziona il suo amore. Lui, il Figlio di Dio, conosce e segue le strade del Regno “perché i miei pensieri non sono i vostri pensieri, le vostre vie non sono le mie vie” (Is 55,8). Perché l’Amore è antecedente ad ogni ritorno, antecedente ad ogni segno di ravvedimento, antecedente ad ogni sforzo. Prima c’è l’iniziativa di Dio, c’è la grazia, c’è l’eccedenza dell’amore. Perciò, ogni dovere da compiersi, non può che avere, alla sua radice un dono ricevuto. Allora, se primeggiando ci viene incontro la grazia, ogni dovere e ogni legge si può prendere sul serio.

Sì, la prima conversione da fare riguarda proprio il senso della Quaresima.

Convertire è contemplare Gesù che offre quella sovrabbondanza di perdono, quella sproporzione di cura, quell’eccesso di misericordia che consente a Dio di camminare per le vie dell’umano e, a ogni umano, di rannicchiarsi, amorevolmente accolto, tra le sue braccia. È contemplare Gesù che si offre a tutti, soprattutto agli sfregiati dalla vita e dal prossimo, come amico, come segno che Dio li accoglie tra le sue braccia prima ancora che tornino all’osservanza della Legge e pongano gesti conformi all’Alleanza. È scandaloso Gesù che si dona loro come comunione con il Padre, come accesso immediato a lui, accogliendoli così come sono, peccatori: “In verità ti dico: oggi sarai con me in paradiso!” (Lc 23,43). Sì, scandaloso ma quanto salutare, indispensabile, salvifico questo scandalo! Senza lo scandalo stupefatto della Quaresima, le campane di Pasqua restano inchiodate.

Sì, la prima conversione da fare riguarda proprio il senso della Quaresima.

Convertire è consegnarsi al suo perdono, senza riserve, assoluto, totale, che sconcerta le persone che si sentono moralmente giuste e legalmente corrette. Non comprendono il suo modo di vedere e di parlare di Dio e dell’umano. La tradizione evangelica ha conservato una parola rovente rivolta da Gesù a coloro che presumevano di sé, scandalizzandosi di lui: “In verità vi dico: i pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio” (Mt 21,31). Certo è che pubblicani e prostitute, poveri e impuri di ogni specie, peccatori e malandrini di ogni rango, lo comprendevano e per loro, la Notizia che quel giovane uomo dal profumo divino annunciava, era davvero una lietissima novità.

Sì, la prima conversione da fare riguarda proprio il senso della Quaresima.

Convertire è dare credito a Gesù che pone tutti e ciascuno, giusti e ingiusti, di fronte all’abisso insondabile del perdono di Dio. Il Figlio, unico a conoscere il compassionevole Padre, offre a tutti accoglienza: “Nella casa del Padre mio vi sono molti posti. Se no, ve l’avrei detto. Io vado a prepararvi un posto; quando sarò andato e vi avrò preparato un posto, ritornerò e vi prenderò con me, perché siate anche voi dove sono io. E del luogo dove io vado, voi conoscete la via” (Gv 14,2-4). Chi rimarrà fuori della porta? Solo coloro che non danno credito a Gesù, pretendendo da Lui, misericordia ‘selettiva’. Solo per sé (naturalmente accomodandosi tra i buoni, i meritevoli, i giusti …).

Sì, la prima conversione da fare riguarda proprio il senso della Quaresima.

Convertire, in una parola, è questione di stile: fare proprio lo stile di Dio, diventato volto e fattosi storia nel Figlio Gesù, donatosi a ciascuno e a tutti completamente, gratuitamente, gioiosamente. Oggi si può dare credito solo a Dio che, nel Figlio Gesù, si è fatto servo fino alla croce e perciò unico maestro credibile.

Solo a lui, Parola del Padre si può dare l’ossequio dell’ascolto, solo dietro a lui si possono porre i passi di una esistenza. Solo a lui, Fedeltà di Dio.

Solo a lui acqua viva, infinitamente ineguagliabile alle stagnanti e screpolate cisterne a cui cerchiamo di dissetarci.

Solo a lui luce da luce, giorno senza tramonto, domenica senza vespro per rischiarare i nostri passi che brancolano nel buio della violenza, della guerra, della penuria di vita, di scelte politiche, economiche, sociali, educative, assistenziali, ecclesiali, confuse, equivoche, ingiuste. Buie.

Solo a lui Vivente in eterno, mentre ci dibattiamo, analfabeti di vita, in un serraglio dove le zaffate della idolatrata cultura di morte, asfissiano; dove bruttezza, disarmonia, volgarità e dispregio dell’umano appaiono incoronate e sovrane.

Solo a lui che ha “svuotato se stesso” per amore (cf. Fil 2,7) appartiene il vero magistero di umanità e di divinità, è gioiosamente dovuta l’obbedienza della fede, conviene la disponibilità di ogni vita. Il credito pieno e incondizionato lo si può concedere solo a colui che, per mio amore, ha svuotato se stesso: “Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù, il quale, pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; ma svuotò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce. Per questo Dio l’ha esaltato e gli ha dato il nome che è al di sopra di ogni altro nome; perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra; e ogni lingua proclami che Gesù Cristo è il Signore, a gloria di Dio Padre” (Fil 2,5-11).

Vogliamo accogliere, come comunità ecclesiale di Alghero-Bosa, l’invito che questa Parola, attraverso l’Apostolo, ci consegna: “avere un medesimo sentire” – phronèite – tutti e ciascuno. E tale con-sentire può essere commisurato solo a Cristo Gesù, la cui persona è costituita modello unico su cui “con-figurare” (syn-morphìzo: cf. Fil 3,10.21; Rm 8,29) la vita personale e comunitaria dei credenti. Gesù, il quale “essendo nella condizione di Dio” – en morphè Theou – scelse liberamente di entrare nella “condizione di servo” – en morphè doulou –.

Se Dio, nel Figlio Gesù, serve, quale potrà essere il mio, il nostro stile?

Gesù non ha considerato la sua (per di più esclusiva e di per sé incondivisibile) “condizione di Dio” un privilegio, un tesoro irrinunciabile, “qualcosa da trattenere” gelosamente per séharpagmòn –, ma ne fa dono a tutti. Peccatori per primi. Il desiderio di dono di Gesù, la sua scelta paradossale e libera, viene plasticamente “fotografata”: “Ma/invece di trattenere gelosamente per sé il suo essere nella condizione di Dio, svuotò se stesso per farsi umana carne”.

Se Dio, nel Figlio Gesù, svuota se stesso della sua inalienabile e intrasferibile divinità, a quali atteggiamenti di accaparramento geloso, avvinghiante, escludente sono chiamato a mettere mano?

Sì, la prima conversione da fare riguarda proprio il senso della Quaresima.

La Preghiera di Gesù al Getzemani

La preghiera di Gesù, di notte, al Monte degli Ulivi – Marco indica il luogo come “un podere chiamato Getzemani” (14,32) – è stata preceduta da altre preghiere specialissime, nella storia della salvezza. Farne memoria offre un ingrediente non marginale per una più profonda comprensione e per accrescere la consonanza spirituale con il racconto lucano (Lc 22, 22,39-46 con i paralleli di Mt 26,36-41 e Mc 14,32-38).

Alcuni antichi testi aramaici sinagogali, che commentano pagine bibliche considerate fondanti nella storia della salvezza – già noti a Gesù e alla Chiesa primitiva (basti ricordare il Targum Neofiti I) –, ci consegnano una tradizione assai preziosa, chiamata Poema delle quattro notti. Il testo racconta di come, per quattro volte, Dio ha vegliato tutta la notte per fare salvezza (facendo così, lui stesso, “Pasqua”). È importante ricordare che la memoria di queste quattro “notti pasquali”, da Israele è giunta fino a sfociare nella Veglia Pasquale cristiana.

La prima notte: la creazione. Tutto era confusione, vuoto e caos – tohu wa-bohu –e l’unica sovranità apparteneva alla tenebra. Il Creatore, che veglia, pronuncia la Parola creatrice e chiama quella notte di veglia, Prima Notte. Nella tenebra e nel confuso vuoto globale, la Parola dell’Eterno è stata luce. In questa notte creativa, il Creatore, dà inizio al suo disegno salvifico.

La seconda notte: l’alleanza con Abramo. A due vecchi – cento anni Abramo, novanta Sara – Dio, che veglia, assicura che nascerà Isacco, il figlio tanto atteso. Con la medesima Parola creatrice, chiama quella notte di veglia, Seconda Notte. È il secondo passo decisivo del cammino di Dio in partenariato con l’umano: con Abramo, padre della fede, Dio stringe alleanza. Dopo avergli promesso il figlio Isacco, gli ordina di offrirglielo in sacrificio. Il credito che Abramo fa a Dio, è totale. Obbedisce. Il Signore impedirà l’uccisione del giovanissimo Isacco e registra l’incondizionata fedeltà di quel padre. La Pasqua evoca, quindi, anche la liberazione dalla morte di Isacco, primogenito della promessa.

La terza notte: il Signore in Egitto. Dio, che veglia con “mano forte e braccio potente”, uccide i primogeniti d’Egitto e pone in salvo i primogeniti di Israele. Con la medesima Parola creatrice, chiamò quella notte di veglia, Terza Notte. È la notte che, più direttamente, è letta in riferimento alla Risurrezione del Signore Gesù. È il passaggio dalla schiavitù dell’Egitto alla libertà del cammino nel deserto, dal pianto alla gioia, dalla morte alla vita.

La quarta notte: viene il Messia. Quando Dio si manifesterà per liberare il popolo di Israele di mezzo ai pagani, il re Messia si manifesterà. È la Quarta delle quattro Notti in cui Dio veglia. Questa è la notte protesa verso il futuro: con l’avvento del Messia, la liberazione sarà completa e definitiva, il vecchio ordine di cose sarà frantumato, perché il Messia ne instaurerà uno nuovo e giusto. Noi celebriamo questa quarta notte nella Veglia pasquale, riattualizzando le prime tre ascoltando le pagine della Bibbia che le evocano. L’intera liturgia della Veglia pasquale, che culmina nell’Eucarestia, ci dona la presenza del Signore Risorto.

Ma tra le “notti di veglia” di Dio, dobbiamo ricordare anche la misteriosa e lottata notte tra Dio e Giacobbe raccontata in Genesi 32,23-33,4. Un abbraccio che è una lotta e una lotta che è un abbraccio, dove i due soggetti del testo mantengono, volutamente, una certa indeterminatezza e ambiguità nei colpi che assestano e che ricevono. Una narrazione che resta aperta circa gli esiti stessi di tale singolarissimo match. A Giacobbe che, ferito, pretende di conoscere il Nome di quel Tale/Ish, viene cambiato Nome, diventando Israel dove, paradossalmente, ferito-perdente ma (anche)vincente, “Dio regna”, creandosi così un popolo che, finalmente, gli darà credito. Un’icona biblica che ci ha accompagnato nel decennio 2012-2022 – “La fede viene dall’ascolto” Rm 10,17. Obbedire alla Parola per crescere nella fede, pp. 15-36 –, suggerendoci la portata unica e attuale di quell’abbraccio lottato. Sul far dell’aurora, Giacobbe, diventato Israele grazie al Nome nuovo ricevuto da Dio, riceve anche una beracha, una benedizione: sappiamo che prima l’aveva carpita al padre Isacco e sottratta proditoriamente al gemello Esaù, ora gli è data in dono da Dio. “Certo: è Dio il vincitore, ma è un vincitore che diventa tale quando offre all’uomo la sua benedizione, la sua benevolenza, la comunione con Sé. Qui si gioca l’ineffabile rapporto Dio-umano: “Dio vince”, non combinando una carneficina, non mostrando segni portentosi di potenza soverchiatrice, non annientando l’uomo ma offrendo la sua benedizione. E l’uomo che accoglie questa benedizione accetta consciamente di deporre lì, davanti al benedicente, il proprio passato e il proprio futuro. È un perdersi per ritrovarsi altro, nuovo. Davvero, a questo punto, capiamo perché la narrazione si muove tutta in una voluta ambiguità e pluralità di sensi e di risoluzioni, non dicendo mai chi è vinto e chi è vincitore: Yisrael, Dio-vince perché Ya‘aqob/Yisrael ha vinto chiedendo e ricevendo la benedizione! Ya‘aqob/Yisrael è diventato libero suddito del Signore e ne riceve la benedizione. E questa non è più estorta in modo fraudolento come la precedente (cf Gn 27,36). Ya‘aqob/Yisrael la implora ed è il frutto più splendido, perché più combattuto, della lotta ormai conclusa. Da questa lotta e da questa benedizione nasce quel popolo che lotta con Dio nella notte oscura della fede sino allo spuntare della piena luce. Popolo che quando implora benedizione ottiene benedizione”.

Anche alla luce di queste “veglie di Dio”, ci accingiamo a leggere il brano evangelico della preghiera notturna di Gesù alle pendici del Monte degli Ulivi. Tra gli alberi di olivo, in quella notte di quasi primavera, Gesù, autentico Israele, dove incomparabilmente “Dio regna”, nel suo faccia-a-faccia agonico con Dio, ne confessa e consegna il vero Nome: Padre. “Nella trasfigurazione del Tabor il Padre chiamò Gesù ‘Figlio’; nella sfigurazione dell’orto il Figlio lo chiama ‘Padre’. Là l’umanità lasciò trasparire la bellezza della divinità; qui la divinità riveste l’orrore della nostra disumanità. Gesù affronta la morte in tutta la sua drammaticità, così come ognuno di noi la sperimenta dopo il peccato: fine della vita, abbandono di ogni bene e di Dio stesso. Ciò è particolarmente tragico per lui, perché è il Figlio. Quando porta su di sé il peccato dei fratelli, che è l’abbandono del Padre, egli vive il nulla di sé. È un male inconcepibile, infinito. Veramente Dio si perde per noi. Ma proprio così si rivela come amore! Nell’agonia dell’orto vediamo che il nostro male tocca il cuore stesso di Dio, facendone uscire la sua essenza. Quale deve essere l’amore del Padre per noi, se per noi ha donato colui per il quale è se stesso? Da questa maledizione, in cui vive l’angoscia senza limiti dell’annientamento, Gesù si rimette con fiducia filiale nelle braccia del Padre” (S. Fausti):

Uscito se ne andò, come al solito, al monte degli Ulivi; anche i discepoli lo seguirono. Giunto sul luogo disse loro: “Pregate, per non entrare in tentazione”. Poi si allontanò da loro quasi un tiro di sasso e inginocchiatosi, pregava: “Padre, se vuoi, allontana da me questo calice! Tuttavia non sia fatta la mia ma la tua volontà”. Gli apparve allora un angelo dal cielo a confortarlo. In preda all’angoscia, pregava più intensamente; e il suo sudore diventò come gocce di sangue che cadevano a terra. Poi, rialzatosi dalla preghiera, andò dai discepoli e li trovò che dormivano per la tristezza. E disse loro: “Perché dormite? Alzatevi e pregate, per non entrare in tentazione.

Visivamente, la composizione lucana risulta nitida ed eloquente: nel suo centro – la persona di Gesù, il suo pregare, la sua lotta – e nella sua incorniciatura – l’indispensabilità della preghiera, per ogni discepolo, per non rimanere vinto nella tentazione – :

– Pregare per non entrare in tentazione (v.40)

– Gesù si allontana dai discepoli (v.41a)

       – Gesù si inginocchia e prega (v.41b)

                   preghiera e lotta di Gesù (v.42-44)

            – Gesù si alza dalla preghiera (v.45a)

– Gesù si avvicina ai discepoli (v.45b)

– Pregare per non entrare in tentazione (v.46)

Nei testi paralleli in Matteo e in Marco, viene evidenziata maggiormente la tristezza e l’angoscia mortale di Gesù davanti alla croce, che si profila ormai vicinissima. È l’ora di un terrificante e definitivo scontro con il male. In Luca, il racconto ha un accento diverso: l’angoscia insostenibile di Gesù, la sua totale prostrazione, la tragicità che tutto pervade, come anche l’irresponsabilità dei discepoli e la loro assoluta pusillanimità, nel terzo Vangelo viene, in qualche modo, addolcita, stemperata, “scusata”. Luca, nel racconto della preghiera di Gesù al Getzemani, vuole consegnare qualcosa di irrinunciabile della preghiera stessa e il medesimo vocabolario ci aiuta a individuare tale accentazione: il verbo “pregare” e il sostantivo “preghiera”, nei sette versetti, è ripetuto cinque volte, quasi trama e scansione della narrazione.

Vistosamente, il testo è incorniciato dalla medesima espressione (vv.39.46): “pregate per non entrare in tentazione” rivolta da Gesù ai discepoli; “egli […] in ginocchio pregava” (v. 41); “pregava più intensamente” (v.44); “levatosi dalla preghiera” (v.45). Nel cuore del testo c’è, dunque, Gesù stesso e la sua preghiera, il come egli affronta e vive quel momento di buio estremo e di angoscia montante. In apertura e in chiusura, una indicazione esplicita, ai discepoli, sul come affrontare e vivere quella medesima esperienza per cui li ha condotti con sé. Un magistero, ben lo si comprende, gravido di autorevolezza, proprio per il come Gesù sta abitando tenebra e angoscia. Ma i tre declineranno un altro come da ciò che Gesù compie e indica (Luca non menziona i nomi, esplicitati, invece, da Marco: Pietro, Giovanni e Giacomo, indicando genericamente “discepoli”, per sottolineare che l’insegnamento di Gesù è valido non solo per i presenti, ma per tutti e per non far pesare troppo il fallimento eclatante dei tre…).

Luca, dunque, intende consegnare simultaneamente ai suoi lettori, sia il come della preghiera di Gesù, sia il nesso inscindibile tra preghiera e tentazione, preghiera e responsabilità, preghiera e fuga dal reale.

                   Un frantoio speciale

Siamo nella notte pasquale e bisogna rimanere nei pressi della Città santa. Ma, soprattutto, viene richiamata un’abitudine, una frequentazione assidua di Gesù e dei suoi al Monte degli Ulivi, come luogo privilegiato di preghiera: “andò, come di solito” (v.39). Gesù deve pregare e solitamente, quell’oliveto, è il posto che predilige e, nonostante la paura che pervade lui e i suoi, in quei giorni, non cambia itinerario.

Un particolare, che il lettore della Bibbia non può scordare, è che proprio quel Monte degli Ulivi viene menzionato come il luogo dove il re Davide arrancava piangendo, per l’atroce tradimento del figlio Assalonne che gli si era rivoltato contro (2Sam 15,30-32). In quegli stessi paraggi, Gesù suderà sangue per le ribellioni di ognuno e si af-fiderà al Padre, consegnandosi interamente a lui. E proprio lì, al Getzemani – Gat shemanim: “torchio d’olio” –, sarà l’umanità di Gesù ad essere torchiata, spremuta, pigiata, ma proprio tale torchiatura lascerà trasparire la sua identità: è il Figlio di Dio, che si abban-dona al Padre per donare, a tutti, il medesimo suo stile filiale.

Di certo, in quella notte, al di là di ogni identificazione e uso del sito, quella propaggine del Monte degli Ulivi, appena fuori Gerusalemme, diventa affollata, diventando luogo degli incontri più diversi, dei conflitti più disparati e di avvenimenti unici, irripetibili, decisivi. Bivio obbligato tra presenza e fuga, tra condivisione e latitanza. Lì, il Figlio cerca e incontra il Padre nella preghiera. Sempre lì, i discepoli non cercano né il Padre, né la sua volontà, né una prossimità con Gesù. Semplicemente dormono.

Gli olivi dell’eremo-podere diventano testimoni muti dei gesti più incomparabili e incompatibili: di amore e di indifferenza, di disponibilità e di irresponsabilità, di baci avvelenati e di accoglienza, di sfrontatezza e di rilancio del dialogo, di violenza e di tenerezza… Quel guazzabuglio che è il cuore umano, lì, al Getzemani – ma come sempre e dovunque – ha sfoggiato tutte le sue tonalità.

L’esortazione insistente e accorata di Gesù ai suoi perché entrassero in preghiera, è disattesa. Solo davanti al Padre nella preghiera, avrebbero trovato la forza per condividere con lui la sua desolazione e la lucidità per farsi compartecipi della sua passione. Non lo ascoltano. Questo ammanco di credito al Maestro attiva l’infedeltà dei discepoli, l’infedeltà preme perché ci si sottragga, il sottrarsi apre la via della fuga. Fuga che li rende, infine, assenti nel momento più decisivo, non solo della vita di Gesù, ma della loro stessa esistenza. Epilogo che ognuno, con dolore, può aver sperimentato più di una volta: da spettatori indifferenti o sbigottiti, a latitanti inconsapevoli del dramma che si va consumando, degli infiniti drammi che si consumano sotto gli occhi di ciascuno.

Gesù prega il Padre

Il racconto dell’entrata nella preghiera di Gesù si apre con una notazione che parrebbe semplicemente cronachistica, ma che, invece, diventa prezioso squarcio rivelatorio: “Poi si allontanò da loro quasi un tiro di sasso e messosi in ginocchio, pregava” (v.41). Il verbo impiegato, per dire la presa di distanziamento di Gesù dai suoi, è apestàsthe e indica la violenza dei sentimenti che scuotono interiormente Gesù in quell’al-lontanamento, in quella dis-giunzione dai suoi discepoli. La sfumatura verbale è nitida ed eloquente: è uno “staccarsi con violenza”, un “dis-giungersi”, appunto, che evoca l’intero corteo di sentimenti contrastanti, drammatici, laceranti, che tale distanziamento comporta. È l’unica volta che questo verbo verrà impiegato nel terzo Vangelo, rendendo così l’espressione ancora più pregnante. Tornerà negli Atti degli apostoli, quando Paolo, in quel momento struggente di addio agli anziani di Mileto, dovrà, anche lui, dis-giungersi/strapparsi da loro, sapendo che mai più potrà rivederli (cf At 21,1).

La sfumatura verbale suggerisce varie considerazioni al lettore: il legame forte, tenace, profondo di Gesù con i suoi discepoli, di cui si può solo intuire la portata, la consistenza, l’intensità. Il baratro incommensurabile di angoscia e la densità soverchiante di tenebra che Gesù già vede, già sperimenta, già lo travolge in quel suo appartarsi per guadare in faccia la realtà e dare il suo assenso cordiale, libero, responsabile, a ciò che sta av-venendo. È già una reale, crudissima dis-giunzione da ciò che viveva, da ciò che amava, da ciò che annunciava, da ciò che sperava, da ciò che prometteva. E il perché? E il come? E il dopo? Tragica dis-giunzione.

Non c’è altro da fare che disgiungersi: bisogna andare di fronte al Padre e, lì, portare tutto di sé. Pregare.

Il narratore esplicita anche il quanto del distanziamento ossia “circa un tiro di sasso”: si tratta di uno spazio tale da permettere a Gesù, anche se a distanza, di essere ancora visto e sentito. Un modello, per essere tale, deve poter essere accessibile e la ‘modellarità’ di Gesù, in quel frangente drammatico e orante, risulta imperdibile.

A differenza della narrazione riportata da Marco, dove Gesù si prostra a terra, Luca lo ritrae in ginocchio, registrando così l’atteggiamento di una preghiera insistente, umile, obbediente e piena di ossequio verso colui che è pregato. Il pio ebreo, solitamente, prega in piedi, ma, quando la preghiera diventa particolarmente intensa o drammaticamente coinvolgente, conosce anche la posizione genuflessa (cf Sl 95,6; Is 45,23; Dn 6,11; At 7,60; 9,40; 20,36). Nel pregare di Gesù, poi, Luca sottolinea, attraverso l’uso del tempo imperfetto, un’azione continuativa: un gesto, la preghiera che, iniziato nel passato, dura nel tempo. Una preghiera, dunque, ininterrotta, intensa, duratura. Quasi a dire che la passione, prima di essere vissuta, è pregata. Di più: è già vissuta dentro la passione del pregare e, prima di essere consegnato “nelle mani dei peccatori” (Mc 14,41), Gesù, nella preghiera, tutto si consegna nelle mani del Padre.

È un momento denso di mistero, evocabile ma non comprensibile.

La preghiera di Gesù al Getzemani, ci consegna gli elementi irrinunciabili della preghiera cristiana ovvero l’orizzonte, lo spazio e la modalità:

solo davanti al Padre: che è e resta sempre e solo Padre, l’unico Buono (Lc 18,19);

solo da Figlio: nel segno di un abban-dono fiducioso e di una consegna incondizionata, in cui tutto di sé è affidato;

solo facendo affiorare ciò che preme in cuore: anche e soprattutto quei desideri così profondi da non scorgerne la radice, così conflittuali da togliere il respiro, così violenti da atterrire e atterrare.

Il centro della narrazione, in tutti e tre i sinottici, riporta la agonìa/lotta per passare dalla mia alla tua volontà. Per af-fidarsi.

 “Padre, se vuoi”

Gesù aveva insegnato ai discepoli la parola primissima con cui rivolgersi a Dio nella preghiera: “Padre nostro”, (Lc 6,9). Ora, nell’orto, si rivolge a Dio chiamandolo Padre: è l’orizzonte in cui Gesù sempre si è mosso, è l’amore che ha ritmato passi, parole e gesti, è la certezza inalienabile anche ora che tutto è tenebra. Ora che tutto si sta spegnendo, al Figlio resta, come unica sorgente di vita, la fiducia nel Padre.

Tre parole in greco: “Pàter ei boùlei”, tre parole in latino: “Pater, si vis”, tre parole in italiano: “Padre, se vuoi”. Prima di domandare al Padre di essere liberato dalla morte che ormai incombe tragica, violenta, ingiusta, insensata, su di lui innocente trattato come malfattore (v.37), prima diesplicitareal Padre il suo insopprimibile desiderio di vita, prima di tutto, Gesù afferma di volere rimanere Figlio e lo esplicita rendendosi pienamente disponibile a ciò che il Padre vuole da lui: “Padre, se vuoi (v.42). Antecedentemente a tutto, c’è “Padre, se vuoi”. Antecedentemente a tutto, c’è il desiderio, la disponibilità, la decisione incondizionata di rimanere Figlio. , rimanere Figlio. Gesù, che conosce e desidera i desideri di Dio, desidera rimanere Figlio. Anche nella morte. Questo abbandono filiale al Padre, nel momento della morte, è la fede che salva.

Solo dopo viene la richiesta di colui che ama lavita come il Padre, fonte e datore di vita, la ama: “allontana da me questo calice!” (v.42).

Il calice angoscioso e terrificante della morte, di quella morte, per noi che contempliamo il mistero, pare diventare ancora più imbevibile. E le striscianti domande ci tolgono il respiro: “Ha sbagliato forse tutto? E se non ha sbagliato, perché Dio non lo difende? Forse Dio è ‘nemico’, l’ha abbandonato?”. “In questa sua morte Gesù, il Figlio, porta su di sé il peccato dei fratelli. La sua angoscia è un male infinito portato infinitamente: l’abbandono del Padre portato dal Figlio! Gesù soffre la decisione di bere questo calice, che contiene realmente tutto il male possibile e impossibile. Sente tutta la ripugnanza della carne segnata dal peccato e dominata dalla paura della morte” (S. Fausti).

Davanti al Padre, nella preghiera, Gesù sa di potersi dire in verità: desidera con tutte le forze rimanere Figlio anche nella morte, ma desidera anche, con tutte le fibre del suo essere, di non morire. Proprio perché è sotto lo sguardo del Padre e prega, Gesù lascia emergere i desideri conflittuali che lo lacerano, quei sentimenti opposti che confliggono, squartandogli l’anima e sconquassandogli la carne. Chiama le cose per nome, si consegna e si abbandona al Padre di cui conosce l’amore e la fedeltà. È proprio nella preghiera davanti al Padre che Gesù gli rinnova, in modo colmo e concreto, fedeltà filiale e affidamento. È il suo abbandono fiducioso alla radice della sua fedeltà. Sa che la sua vita è al sicuro, non perché l’avvinghia ma proprio perché l’affida. È tutto qui il significato della preghiera come abbandono: “Padre se è quello che tu vuoi”.

Anche in noi, proprio come il Figlio nell’orizzonte del Padre e nella preghiera, possono trovare unificazione i desideri e le aspirazioni contrastanti del cuore, ciò che in noi è tumultuosamente dis-ordinato e conflittuale, paralizzandoci nella paura e impedendoci di agire, di scegliere, di decidere. In questo stato confusionale dello spirito, (volutamente) lontani dallo sguardo del Padre e sottratti a vera preghiera (e quindi atei, più o meno devoti, ma atei), continuiamo ad accampare scuse infinite, a differire e dilazionare ad un poi che mai arriva, decisioni, scelte, responsabilità, tagli, cambiamenti. Conversione. Convivendo amaramente con la sensazione di essere sempre fuori posto e mai co-rispondenti alla vita.

Davanti al Padre, nella preghiera, Gesù manifesta senza vergogna la sua angoscia, non la nasconde, non teme che la sua debolezza e fragilità si manifestino. Consegnandosi al Padre così come in quel momento è, mettendo a fuoco nella preghiera il suo conflitto interiore, in Gesù si ri-unifica il cuore, riprendendo in mano la capacità di decidersi, ancora una volta, perché “sia fatta, Padre, la tua volontà e si compia in me ciò per cui mi hai mandato”. E allora, interiormente pacificato e certo della volontà del Padre, anche davanti a Giuda che sta arrivando, può dire sovranamente ai suoi: “Alzatevi, andiamo; ecco colui che mi tradisce, si avvicina” (Mt 26,46).

La propria debolezza non va nascosta ma esposta: innanzitutto al Padre, nella preghiera. È quel vaso di creta (cf. 2Cor 4,7) in cui è racchiusa la forza di Dio, la forza del Signore Gesù che ha vinto – anche per noi – nella sua agonia. Nella sua angoscia è vinta la nostra, così come è vinta la paura di metterci in gioco, di perdere la vita per altri. Vinta nella sua preghiera al Monte degli Ulivi. Certo, la preghiera garantisce al discepolo la stessa vittoria di Gesù, ma non lo sottrae alla svolta della prova. “Ti basta la mia grazia; la mia potenza infatti si manifesta pienamente nella debolezza. Mi vanterò quindi ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo. Perciò mi compiaccio nelle mie infermità, negli oltraggi, nelle necessità, nelle persecuzioni, nelle angosce sofferte per Cristo: quando sono debole, è allora che sono forte” (2Cor 12,9-10).

Carlo Maria Martini, commentando questi versetti lucani, si poneva tre domande: “La mia preghiera è fuga o è contemplare coraggiosamente ciò che Dio mi chiede? Quando prego, unifico i miei desideri e i conflitti interiori nella domanda della volontà di Dio che mi rende forte di fronte alla prova? Sento che la forza di Cristo che prega in me, la sua vittoria sull’angoscia e sulla paura, sono la mia forza e la mia vittoria? Per rispondere alle domande chiediamo al Signore di insegnarci a pregare così:

Fa’ che nella nostra preghiera vinciamo ogni paura che ci impedisce di deciderti per te, per i fratelli, per ciò che ci costa, per ciò che ci spaventa; fa che la nostra preghiera sia una vittoria della nostra fede; in essa trionfi la tua potenza che ha vinto la paura della morte”.

Un “tuttavia” che cambia la storia

Il “tuttavia/plèn”, ancorato al “Padre se vuoi”, lo riprende, lo ribadisce e lo esplicita: dopo e oltre e di più della richiesta di Gesù che ama la vita – “allontana da me questo calice!” (v.42) – maxime, davvero senza alcuna comparazione possibile (neppure con la preziosità e unicità della propria vita), il Figlio Gesù prega chiedendo al Padre che si compia in lui la sua volontà. È quella che l’Unigenito ha a cuore, desidera e chiede proprio in quel momento inedito.

Il verbo all’imperativo presente “sia fatta” – ghinèsthe – suggerisce la continuazione di un’azione già iniziata: è, dunque, indispensabile aderire sempre alla volontà del Padre, ogni qual volta si palesa. Compierla sempre e comunque. Non possiamo non correre alla domanda del Padre nostro così come nel Vangelo di Matteo ci è consegnata: “Sia fatta la tua volontà, come in cielo così in terra” (Mt 6,10). Nella versione di Luca (Lc 11), questa terza domanda matteana non appare. Luca non la mette sulle nostre labbra perché, in verità, è solo il Figlio Gesù l’unico a compierla, per tutti e per ciascuno. È l’unico a compierla sempre e compiutamente. È solo per lui, con lui e in lui che anche noi, figli nel Figlio, possiamo compiere la volontà del Padre. Ma tutto ciò passa attraverso l’accettazione fiduciosa della sua e della nostra morte. L’accettazione della morte è l’atto più radicale di fiducia in Dio, è l’assenso alla sua paternità che resta attiva oltre il nostro limite assoluto di morituri, di persone che moriranno a questa vita.

 Nella preghiera, Gesù arriva alla consegna di sé al Padre: passa per la via del disarmo assoluto di sé e si ri-mette a lui, non perché ci sono dei segni che spingano a questo affidarsi, ma proprio perché non ci sono. Semplicemente si af-fida.

L’angelo sostenitore

Nel racconto è narrata anche l’apparizione di un angelo che va intesa come risposta del Padre alla supplica del Figlio: “Gli apparve allora un angelo dal cielo a confortarlo” (v. 43). In filigrana si può intravedere l’episodio narrato in 1Re 19,7-8, dove il profeta Elia viene sostenuto, nel deserto, da un angelo, così da potersi rialzare e continuare il cammino. La presenza dell’angelo, quindi, dice che il Padre dona al Figlio tutto il sostegno per continuare il cammino, ma non dice che il calice è stato allontanato o lo berrà qualcun altro o ci sarà qualche colpo di scena. Luca non intende sottolineare il lato straordinario, miracolistico della presenza angelica quanto, piuttosto, che l’angelo manifesta la condizione fragile, umana di Gesù, che il Padre sostiene. “Gesù è stato reso più forte, per conformare la sua volontà a quella del Padre. Gesù riceve fortezza per affrontare la passione, senza che questa sia privata del suo aspetto pauroso e doloroso. L’apparizione di un angelo, significa, in modo plastico, la grazia divina che ricevono coloro che devono affrontare il martirio, grazia che rende capaci di rimanere fedeli fino in fondo” (G. Rossé).

Tanto è vero che, subito dopo il v. 43 che recita: “Gli apparve allora un angelo dal cielo a confortarlo”, è detto: “In preda all’angoscia, pregava più intensamente; e il suo sudore diventò come gocce di sangue che cadevano a terra” (44). Sarebbe paradossale che, l’entrata in scena dell’angelo venuto a consolare, attivasse, invece, un peggioramento dell’agonìa, dell’angoscia di Gesù. Uno sconforto e un’angoscia così profonda da produrre “sudore di sangue”, fenomeno conosciuto come ematoidrosi. Luca, medico, vuole sottolineare anche l’aspetto fisico dell’estremo sconforto di Gesù e come, in quella lotta contro il potere delle tenebre, egli entri in uno stato di massima angoscia a motivo della prova suprema che sta iniziando.

Come si sa, gli angeli, nella Bibbia, rimandano direttamente a Dio, ne sono messaggeri, rendendolo presente nelle cose dell’umano. Più che angelo consolatore, quello citato da Luca, è l’angelo sostenitore che permetterà a Gesù di rialzarsi e affrontare ciò che lo attende. Meglio ancora, è la stessa mano del Padre che sosterrà il Figlio nella sua oblazione.

 Preghiera e tentazione

L’esortazione incalzante di Gesù ai suoi discepoli, “pregate per non entrare in tentazione”, come più volte ripetuto, apre e chiude il testo che contiene, a mo’ di scrigno, la preghiera stessa di Gesù (vv. 40.46). Una cerniera testuale, evidentemente, non decorativa, né di mero infiorettamento letterario. Un inizio e un finale strettamente legati al corpo del testo, che consegna la preghiera di Gesù. La preghiera di Gesù è inscindibilmente legata alla preghiera che il Maestro indica ai discepoli per non “cadere in tentazione”: ne è il modello, la sostanza e la misura. Non c’è quella senza questa.

Ma a quale tentazione fa riferimento Gesù? C’è un nesso tra la tentazione e la preghiera intesa precisamente come quella che Gesù ha vissuto al Getzemani?

Lo stesso termine usato nel greco per indicare “tentazione” – peirasmòn – è significativamente impiegato senza articolo e al singolare: è di immediata comprensione il fatto che Gesù non si stia riferendo all’urgenza di pregare per evitare un peccato puntuale, uno svarione morale specifico, una scelta ambigua circoscritta. Gesù si sta riferendo a qualcosa di molto più sottile, camuffato, impalpabile e abile in molti travestimenti, ma rovinoso nelle sue conseguenze.

È la tentazione che gemma tentazioni. È la tentazione che nutre e sostiene tutte e ognuna le singole tentazioni, impedendo di rispondere a ciò che Dio, la coscienza, gli altri, la propria vocazione personale, gli impegni presi, le parole date, la Chiesa, la storia… domandano.

È la tentazione di fuggire, di dismettere le proprie responsabilità, di consegnarsi alla decisione di non decidere nulla, di disertare la realtà, di procrastinare scelte non dilazionabili, di disattendere problemi, sfide e interrogativi della vita, della comunità, della complessità che ci è data da vivere.

È la tentazione di girare lo sguardo da un’altra parte o di chiudere del tutto gli occhi e tapparsi le orecchie, facendo finta di non vedere e di non sentire per non essere chiamati in causa, per evitare di essere coinvolti, interpellati, scomodati.

È la tentazione di consegnarsi all’accidia, all’ignavia, alla pigrizia, all’indolenza spirituale, alla viltà, al compromesso; una condizione di indifferenza apatica verso tutti e tutto, le cui radici affondano in una condizione di insondabile vuoto interiore. Tutto ciò porta al rifiuto di mettersi in gioco, per rimanere nella propria comfort zone, nelle meno esigenti retrovie: comodi, indisturbati ma agguerriti nel difendere i propri agi, i propri spazi, i propri tempi. Indisturbati e indisturbabili.

Gesù esorta i suoi per due volte: in tale tentazione non bisogna neppure entrare, perché, in solitaria, se ne resta fagocitati. Sottrattosi dall’orizzonte del Padre e nelle cui mani non ci si trattiene in preghiera affidando tutto di sé, la madre delle tentazioni non può non averla vinta. Un altro modo di Gesù per ripeterci di “pregare sempre, senza stancarsi” (Lc 18,1), di non sottrarre alla preghiera, né tempi, né spazi, né ambiti, né alcuna situazione o frangente della propria vita. Ogni cesura sospensiva è un varco d’accesso nella tentazione-madre, nel capostipite di ogni altra singola tentazione.

La preghiera, allora, sventa la fuga dalla propria e altrui storia, riuscendo a dar volto e a chiamare per nome, tutte quelle inevitabili sollecitazioni, interiori ed esteriori, che premono per convincere a dismettere le proprie responsabilità, a rifugiarsi nel privato, a demandare ad altri il da farsi, a temporeggiare. La preghiera è audacia che affronta le esigenti, inattese, mutevoli ed ineliminabili provocazioni della vita.

Al Getzemani si apprende la preghiera come via della vita, come ciò che possibilita l’esserci e il voler esserci, qui-ed-ora, con adesione, coerenza, responsabilità, coraggio decisionale, presa in carico, coinvolgimento, generosità e gratuità. Anche quando “la voglia”, il buon senso, la convenienza, l’opportunità, il “pantofolismo”, il richiamo al quieto vivere, dentro e attorno a noi, spinge a starsene buoni, a non impicciarsi, a non spendersi.

Ho citato sopra, nel paragrafo Altra Quaresima. Quaresima altra, il testo di Matteo 11,1-19, dove il Battista invia dalla prigionia, messaggeri a Gesù per porgli la domanda: “Sei tu colui che deve venire (vale a dire: ma sei tu il Messia?) o dobbiamo aspettarne un altro?”. Immediatamente dopo la risposta “profetica” che Gesù consegna agli emissari e la loro uscita di scena, Gesù prende posizione netta riguardo all’atteggiamento disinteressato, indifferente, scostante di tanti di loro lì presenti. E pone la domanda proprio sul Battista stesso: “Che cosa siete andati a vedere nel deserto? Una canna sbattuta dal vento? Che cosa dunque siete andati a vedere? Un uomo avvolto in morbide vesti? Coloro che portano morbide vesti stanno nei palazzi dei re! E allora che cosa siete andati a vedere? Un profeta? Sì, vi dico, anche più di un profeta […] Ma a chi paragonerò io questa generazione? Essa è simile a quei fanciulli seduti sulle piazze che si rivolgono agli altri compagni e dicono: ‘Vi abbiamo suonato il flauto e non avete ballato, abbiamo cantato un lamento e non avete pianto”. Una generazione che, in contemporanea, bolla il Battista, per i suoi austeri stili di vita, come “indemoniato” e Gesù, che condivide con pubblicani e peccatori addirittura il cibo, come “mangione e beone”. Una generazione capricciosa e incapace di prendere posizione, proprio come quei bambini che, nei villaggi, giocano imitando ciò che animava la vita delle piccole comunità, matrimoni e funerali: “Vi abbiamo suonato il flauto per giocare a matrimonio e… non ci piace! Vi abbiamo suonato un lamento per giocare a funerale e… non ci piace neppure questo!”. Gesù dice: a questa generazione lunatica e incostante, superficiale e mai contenta, proprio come i bambini capricciosi e volubili, non va a genio proprio nulla!

Un tratto comune ad ogni generazione, anche la nostra. Non dar credito al Signore solo perché le circostanze non sono di nostro gusto, le persone non sono come dovrebbero, i tempi non sono quelli propizi, le congiunture non sono favorevoli… La preghiera ci introduce nella capacità cordiale di accogliere Dio, qualunque sia l’aspetto che egli assume per farsi a noi vicino. “Se noi gli stabiliamo dei modi, allora possiamo essere certi che non lo accoglieremo mai, proprio perché il Signore è sempre sconcertante. Ma per noi è importante incontrare lui, accogliere lui, non i nostri sogni. Se la sua venuta non è simile a quella che abbiamo sognata, questo è molto secondario, anzi è per noi un vantaggio, perché i nostri sogni ci chiudono in noi stessi, mentre il Signore, la sua presenza reale e concreta, ci fa uscire da noi stessi e ci mette in relazione con il Padre suo” (A. Vanhoye).

L’abisso di irresponsabilità o, meglio ancora, di vita non vissuta e sperperata che si spalanca nel latitare dalla preghiera, è esemplificato, nel brano evangelico, dal sonno dei discepoli: “dormivano per la tristezza” (v.45). Dormono per non vedere. Dormono per non essere tirati in ballo. Un assopimento che può avere mille motivi e mille scusanti. Eppure, la frase di Gesù al v. 46, tradotta “Perché dormite?”, esplicita una dolente meraviglia, uno stupore angustiato: “Che cosa fate mai, dormite?”. Mentre, come dicevamo, in tutto il racconto lucano si registra un linguaggio “scusante”, se non giustificatorio, certamente attenuante, quando si parla di Pietro e dei suoi compagni, in Marco, la narrazione è decisamente più cruda e le irresponsabilità più marcate: “Simone dormi? Non sei riuscito a vegliare un’ora sola? Vegliate e pregate per non entrare in tentazione; lo spirito è pronto ma la carne è debole” (14,38).

Tuttavia la storia, come sempre, va avanti, non si ferma per attenderci, prosegue. E in quel preciso istante, i tre dormienti sarebbero dovuti essere, invece, ben vigili, partecip-attivi, con una condivisione empatica e una presa di posizione degna del momento: decisa, manifesta, coraggiosa. Invece della preghiera, c’è il sonno, c’è la dismissione, c’è il ritrarsi. Come tutti sanno, non esiste moviola che riavvolga la storia e conceda di reinserirsi, “come Dio avrebbe voluto, esattamente nei fotogrammi dove avremmo dovuto essere presenti”.

La tentazione/peirasmòn non portata nella preghiera, mina la fede. Meglio: la tentazione celata alla preghiera diventa una prova soverchiante. Pietro, Giovanni e Giacomo nel vedere Gesù in quello stato di prostrazione, di angoscia, di smarrimento, si scandalizzano di lui e Gesù stesso diventa un inciampo insormontabile nel continuare a dar credito a lui e al Dio di cui va parlando. Possibile che Dio, il Padre, sia proprio con lui, sia dalla sua parte? “Sembra impossibile che Pietro avesse tanto sonno dopo avvenimenti così eccitanti come quelli della sera, dopo l’Eucarestia […]. Nel sonno di Pietro c’è probabilmente il disgusto psicologico di una condizione inaccettabile come quella di Gesù nell’orto. Poco prima aveva detto: morirò con te, andremo insieme a una morte eroica, cantando contro il nemico; invece Gesù ha paura e fa lo sbaglio di rivelarsi, di mostrare la sua verità che gli altri non sono preparati a ricevere. Comincia così lo scandalo di fronte ad un uomo che ha paura, che si spaventa. Da ciò lo smarrimento e la voglia di non pensarci […]. È bastato a Pietro che Gesù si rivelasse ‘vero’ e non fosse una volta tanto il Maestro a cui si appoggiavano, quello che aveva sempre la parola giusta, bensì un uomo come gli altri, un amico da consolare, per cominciare a scandalizzarsi e non capire; ‘gli occhi appesantiti’, dice il Vangelo: l’espressione richiama uno stato di accecamento interiore, di confusione mentale che grava nello spirito e lo rende pesante, torbido, offuscato. Gesù deve pregare da solo e ogni volta che risveglia i discepoli, provoca uno shock. Vedono la faccia di lui spaventata e angosciata e comincia ad affiorare un dubbio: è veramente il Messia? Come può Dio manifestarsi in un uomo così povero? Gesù che si umilia, che diventa uno straccio, che cammina barcollando, li sconvolge sempre di più, sgretola il loro castello di forze mentali, la loro idea di come Dio si deve manifestare e deve salvare chi gli è fedele, che è il suo Cristo” (C.M. Martini).

La drammaticità degli eventi di quella notte, non portati nella preghiera, travolge la fede dei tre discepoli.

La tentazione/peirasmòn non portata nella preghiera, mina l’adesione al disegno di Dio, proprio nel suo momento cruciale. La preghiera doveva essere l’antidoto per contrastare non solo il male, ma le sue stesse strategie. I tre, invece, “dormono” e consegnatisi al sonno, restano ottenebrati. È proprio dal sonno getzemanico che si profila il decisivo starter del cedimento dei tre, del loro doloroso sbandamento: una libertà, la loro, che si sottrae proprio nell’ora in cui, il progetto di Dio, richiede la loro difficile e indispensabile adesione. Gesù, davanti al Padre, nella preghiera, a lui si consegna, restando fedele fino in fondo. Questa sua obbedienza disarmata e senza condizioni, lo rende dono di salvezza per tutti. I discepoli, consegnandosi al sonno, in quella medesima ora, vengono sopraffatti: “li trovò assopiti per la tristezza” (v. 45). Difficile dimenticare che i nostri tre, sul Tabor, con occhi quasi sbarrati, vedono la Gloria (Lc 9,32). Quella medesima Gloria che avrebbero visto a palpebre aperte su Gesù, la Gloria di vederlo pregare il Padre, contemplare il suo rapporto di Figlio con il Padre. Certo, un Tabor, rovesciato. Ma Tabor.

Questa pagina ci consegna due modi di partecipare alla costruzione della storia e dell’umanità: o con l’intensità partecipativa e solidale di Gesù o con la irresponsabilità confusa dei discepoli. La preghiera resta la condizione irrinunciabile per vivere da protagonisti i piccoli o grandi appuntamenti umani dentro i drammi della storia. È l’unico “antipnotico” per non cedere al sonno della stanchezza, al torpore dell’indifferenza, alla comodità del compromesso, alla ignominia della viltà. È il potenziamento delle diottrie del cuore contro ogni miopia, davanti ai segni dei tempi. La preghiera “è lo sguardo vigile della sentinella sulle brecce sempre aperte del mondo. Spesso attorno si giocano le scelte più decisive. Ci sono i tradimenti di Giuda, le trame sotterranee, le violenze della notte. C’è il rifiuto della luce. La preghiera è il modo più efficace per vivere e continuare l’incarnazione, come incontro fra Dio e la povertà degli uomini, come assunzione delle attese del mondo. Il dono più grande ai fratelli e alle sorelle, la risposta più vera non è il servizio delle opere, ma il servizio dell’intercessione. Perché pregare significa suscitare la vita di Dio negli altri, porgere le mani di Dio a sostegno delle loro fatiche. Il servizio senza radici nella preghiera apre agli altri soltanto mani fragili. Spesso impotenti e vuote. Come le promesse di Pietro, tradite prima del canto del gallo” (E. Masseroni).

La tentazione sgomina colui che, nella lotta, decide di restare solo. Questo comporta la decisione di non pregare. È lo smacco più consueto nella nostra quotidiana ferialità di credenti.

La prossima quinta domenica di Quaresima, 17 marzo, la nostra Chiesa celebra la Giornata per il Fondo Episcopale di Solidarietà. Tutte le offerte raccolte durante ogni celebrazione eucaristica in ciascuna Parrocchia e in ciascuna Chiesa destinata al culto divino, confluiranno in detto Fondo.

Domando ad ogni parroco e ad ogni presbitero di accompagnare le comunità e i singoli a crescere nella consapevolezza di poter e dover diventare fratelli, condividendo con chi fa fatica a vivere.

Moltissimi sono coloro che, con generosità, discrezione e sacrificio, hanno offerto del proprio per sovvenire altri, neppure conosciuti, eppure diventati segno di attenzione e di compassione. A tutti e a ciascuno il mio grazie e quello dell’intera comunità cristiana.

Entro il mese di giugno ogni presbitero depositerà le offerte raccolte in tale giornata presso l’Economato diocesano. Come ogni anno verrà reso noto, tramite il giornale diocesano Dialogo, quanto la carità avrà saputo smuovere la nostra generosità.

Nel suo Messaggio quaresimale 2024,“Attraverso il deserto Dio ci guida alla libertà”, Papa Francesco esorta: “Affinché concreta sia anche la nostra Quaresima, il primo passo è voler vedere la realtà. Quando nel roveto ardente il Signore attirò Mosè e gli parlò, subito si rivelò come un Dio che vede e soprattutto ascolta: ‘Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido a causa dei suoi sovrintendenti: conosco le sue sofferenze. Sono sceso per liberarlo dal potere dell’Egitto e per farlo salire da questa terra verso una terra bella e spaziosa, verso una terra dove scorrono latte e miele’ (Es 3,7-8). Anche oggi il grido di tanti fratelli e sorelle oppressi arriva al cielo. Chiediamoci: arriva anche a noi? Ci scuote? Ci commuove? Molti fattori ci allontanano gli uni dagli altri, negando la fraternità che originariamente ci lega”.

Come Diocesi, insieme a tutte le Chiese Sorelle d’Italia, abbiamo “voluto vedere la realtà” e renderci attenti al grido di dolore della Chiesa Madre di Gerusalemme senza restarne indifferenti. Abbiamo visto il dolore straziante di bambini, di uomini e di donne che ci scuote interiormente e profondamente ci commuove. Abbiamo ascoltato le parole accorate del suo Pastore, il Patriarca Pierbattista Pizzaballa.

Il dramma, come sappiamo, è lontano dall’essere archiviato!

Mossi dallo Spirito, ci siamo fermati in preghiera per loro, per tutti, e ci siamo fatti attenti e solidali. Il Signore ha ispirato tanti tra noi ad essere solleciti e generosi nell’aiuto. Tutti e ciascuno ringrazio per la risposta buona, generosa e concreta. Con le grandi o piccole possibilità che il Provvidente ci mette nelle mani, possiamo asciugare lacrime, restituire sorriso e incentivare la comunione. Non ci sono parole più adatte, in tutti i sensi, che quelle di Paolo che esorta ad andare in aiuto alle necessità, proprio della Chiesa di Gerusalemme: “Se infatti c’è la buona volontà, essa riesce gradita secondo quello che uno possiede e non secondo quello che non possiede. Non si tratta infatti di mettere in difficoltà voi per sollevare gli altri, ma che vi sia uguaglianza. Per il momento la vostra abbondanza supplisca alla loro indigenza, perché anche la loro abbondanza supplisca alla vostra indigenza, e vi sia uguaglianza, come sta scritto: Colui che raccolse molto non abbondò e colui che raccolse poco non ebbe di meno” (2Cor 8, 12-15).

Lo preghiamo nella santa Liturgia, lo esprimiamo come preghiera, come desiderio, come impegno:

Se ti dimentico, Gerusalemme,
si paralizzi la mia destra; 
mi si attacchi la lingua al palato,
se lascio cadere il tuo ricordo,
se non metto Gerusalemme
al di sopra di ogni mia gioia.

Salmo 137,5-6

In questa santa Quaresima che ci conduce alla Pasqua di risurrezione del Signore Gesù, tutti e ciascuno possano godere della dolcezza della presenza del Vivente nel cammino della vita, negli affetti, nell’impegno per costruire fraternità, per rilanciare la solidarietà, per costruire comunità, dove si offre e si riceve perdono, dove si gareggia per portare i pesi gli uni degli altri. Possiamo, tutti, diventare i custodi solleciti e buoni della pace del cuore di coloro che incontriamo nel cammino della vita in questi giorni santi e saturi, già, di Vita. La Vergine Madre sostenga ogni nostro desiderio di bene e con la sua tenerezza consoli ogni pena, rinvigorisca ogni stanchezza, ci strappi da ogni disattenzione verso il Figlio, verso i fratelli, verso noi stessi.

Vi abbraccio fraternamente, invocando la benedizione abbondante del Signore

padre Mauro Maria